Commento dei critici
LA CREAZIONE DEL SEGNO – LA PITTURA COME LINGUAGGIO DELL’ANIMA DI LUCIANO LEPRI – PERUGIA 1999
- Critico: LUCIANO LEPRI
- Anno: 1999
- Tecnica mista su tela di yuta/tela/carta
L’impressione che ho ricavato, guardando la prima volta gli interessanti lavori di Stefano Fanara , è stata quella di trovarmi di fronte ad una sorta di scrittura enigmatica fatta di segni ,caratteri,rabeschi e grafie , apparentemente incomprensibili e di difficile collocazione esegetica ( è questo forse un vezzo brutto,ma forse necessario , di noi critici:il voler trovare una collocazione,una casella ad ogni artista). Restavo ammirato dalla sapienza tecnico-esecutiva del bravo artista di origine siciliana, ne gustavo la capacità coloristica ed il senso della composizione armonica,pur nella magmatica vitalità dell’insieme, ma non riuscivo a penetrare quei grafemi. Poi mi sovenne alla mente una frase che Italo Calvino aveva scritto in “ Se una notte d’inverno un viaggiatore” e cioè: “ Scrivere sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga scopert” Ecco Stefano Fanara in quei suoi segni, in quella grafia pittorica ,originale e personalissima “nascondeva”qualcosa che andava scoperto e che aveva senz’altro a che fare con la sua condizione di uomo e di artista. A me pare che, per il Nostro, il linguaggio della forma richiede che rigore e metodo si incontrino in una sorta di scientificità capace di mettere in relazione alcune tradizionali idee plastiche con una invenzione sensoriale, ed il suo pensiero astratto con una riflessione estetica, di “ideogrammi” dove la bela sintassi di linee e colori dà forma ad un originalissimo vocabolario pittorico astratto, dietro il quale,però ,si celano i suoi impulsi più intimi,le sue oscillazioni dell’animo,in una esistenziale ambiguità formale e semantica. E c’è come un filo , un legame invisibile eppure concreto che lega ed unisce gli “ideogrammi” di Fanara,che viene lasciato correre sulla tela con i suoi rimandi, gli sgorghi nervosi, le macchie e le lacune che qua si infittiscono e là si diradano come cifre portate dal vento, che ora si ritorcono su loro stesse,ora formano grumi di linee e colori, per poi incagliarsi, riprendersi e ancora avvinghiarsi e schizzare via, frenetiche e sguscianti, per dar vita ad un ultimo impulso dove segni, idee sogni e certezze finiscono per fondersi in vibrazioni materiche che non temono le chimere nascoste e racchiuse della sua estetica astratta.
LA CREAZIONE DEL SEGNO – LA TRACCIA IL SEGNO LA CIFRA DI ANNA SPADAFORA – BOLOGNA 1999
- Critico: ANNA SPADAFORA
- Anno: 1999
- Tecnica mista su tela di yuta/tela/carta
Che cosa cerca l’artista nel suo cammino? Qualcosa cerca. E qualcosa trova. Verità, libertà, eternità, bellezza perennità sono parole che prima o poi egli incontra, in modo imprescindibile, irrinunciabile e irrimandabile.
Nel corso dei secoli, l’arte è stata vista ora come specchio del divino, ora come specchio dell’umano, e l’artista ora come demiurgo, ora come sacerdote, ora come stregone,che doveva rivelare presunte profondità nascoste allo stesso uomo che ne era il più diretto interessato. Perciò l’arte e l’artista sono stati di volta in volta considerati in stretto rapporto con il sacro, ossia, in una prossimità eccezionale e insolita rispetto alla verità, alla libertà, all’eternità, alla bellezza e alla perennità, visti come i valori universali e capaci di creare quella distanza e quel distacco intrinseci nell’idea stessa di assoluto. Non è causale che, se un tempo, per acquisire una distanza della dimensione quotidiana della propria esistenza, gli uomini compivano pellegrinaggi nei luoghi sacri, oggi si recano nelle città d’arte o in quelle divenute nuove mecche del moderno viaggiatore alla ricerca di sensazioni forti, di smarrimenti, fatti apposta per affermare “com’è bello ritrovarsi, anche se in un’altra dimensione, anzi proprio perché in un’altra dimensione.
Certo, c’è nel viaggio la metafora del transfert, o della trasformazione. Ma non c’è transfert, né trasformazione che non siano nella parola. Questo sembra dirci Stefano Fanara con la sua ricerca intorno al segno. Il viaggio come percorso iniziatico, o come discesa nel fondo dell’essere per appropriarsi della scintilla dell’illuminazione gnostica sarebbe un viaggio circolare, un viaggio in cui il corpo e la scena, benvisibili e osservabili, risulterebbero corpo sacrificale e scena del male. Fanara si cimenta nella ricerca artistica con una radicalità tale da inventare un’altra lingua, lontana dal luogo secondo cui le parole, con i loro segni e i loro simboli, dovrebbero – come tessere di un mosaico – servire a rivelare l’essere. Nell’opera di Fanara, il segno è senza rimando a un ineffabile fuori dalla parola, di cui l’opera dovrebbe farsi supporto. Il segno nel suo debordamento, è parola e, come tale, non ha nulla a cui rimandare. Fanara segue il segno nelle sue dimensioni di sembianza, di linguaggio e di materia. Questo il suo cammino artistico e questo il suo viaggio, che ha come condizione l’assoluto. Senza alcun bisogno di prendere le distanze da una presunta vita ordinaria – non dimentichiamo che ciascun giorno egli lavora come insegnante nelle scuole elementari, tanto per mantenere costante la sua ricerca attorno a ciò che insegna-, il viaggio di Stefano Fanara non porta alla rilevazione, né allo svelamento di un qualche mistero sacr, perché il sacro sta già nelle cose che si dicono ( nella scienza della parola, il sacro – “ sacro” deriva dalla radice sak, che troviamo anche nel tedesco sagen, “dire”- è il dire che mai si trasforma nel detto). Nell’itinerario di Stefano Fanara siciliano per cultura – la cultura mediterranea, che si situa alla confluenza dei tre monoteismi – , più che di nascita, importa il dire, non certo l’ideale del ritorno alla presunta origine, importa il segno, non certo il significato più o meno cattivo, o il significante più o meno appropriato al significato. Per questo il suo è un viaggio senza ritorno, un viaggio nell’avvenire che procede dalla tradizione, secondo la particolarità e si rivolge alla qualità.
Larte di Stefano Fanara è arte nell’atto di parola, nell’atto originario. Pr questo egli non faccia ampio uso del dripping, non è un caso se la sua opera è stata accosta a quella di Jackson Pollock, uno degli inventori della Action Painting. Il gesto dell’artista curvo sulla tela distesa sulla “superficie dura” del pavimento eraanch’esso arte, in quanto si inscriveva nella’atto della produzione. Tuttora, gli “ sgocciolamenti” sulla tela non possono non evocare la forza del gesto del pittore, un gesto in cui il ritmo – più che rientrare nell’automatismo proprio al surrealismo – è indice dell’aritmetica con cui le cose che si fanno si scrivono in ciascuna opera e in ciascun caso, secondo la logica particolare anziché secondo un presunto consapevole o inconsapevole comune denominatore. Altro che “ laccio strangolatore” del dripping , n elle opere di Fanara c’è la pulsione in atto, il due inconciliabile, da cui procedono l’incodificabile, indecidibile e l’insignificabile, e mai potrebbe la Sfinge mettere la corda al collo di Giocasta. Mai l’incontro con le opere di Fanara potrebbe togliere il malinteso per isolvere l’enigma. Il destino del segno nell’arte è quello di andare verso una la scena originaria, anziché verso la scena del male o della fine del tempo. E’ l’itinerario di Fanara allude proprio all’arte come cammino verso la scena originaria , scena in cui le cose non si contengono, non stanno nell’insieme, non si corrompono e non si consumano, scena dove si schianta il ricordo. E’ dunque niente più animale totemico contro cui schiantarsi per poi uscire rinnovati dallo scontro.
Poiché non c’è più neanche l’artista come animale fantastico, come demiurgo che debba mediare tra il bene e il male, dell’animale fantastico resta il fantasma come operatore, ciò che opera alla scrittura. Non c’è più animale fantastico, ossia non c’è più fantasma materno che debba essere agito e abreagito attraverso l’opera d’arte. Per questo, le opere di Fanara danno un apporto alla trasformazione, non in quanto risultano di un presunto viaggio iniziatico, in quanto invenzione di una realtà nuova, la realtà dell’arte.
Nulla di visibile nelle opere di Fanara, nei loro grovigli, nei loro viluppi, in cui il filo e la corda non possono essere né persi né trovati, né recisi né ricongiunti. Giuntura e separazione sono ciò da cui procedono la cultura e l’arte nell’itinerario intellettuale di Stefano Fanara. Per questo gli scenari e le scenografie di cui egli è autore – ricordiamo le sue collaborazioni con Enrique Vargas, per citare solo la più recente – non partecipano più di una solo dicotomia fra interno e esterno, esteriore e interiore, ma sono scenari della memoria, paesi e città, pianeti e galassie mai visti e mai esporati. Nella sua arte la memoria si scrive lungo la dimenticanza, anziché restare legata al ricordo. E le sue opere come pezzi di musica jazz, si odono, anziché essere viste.
L’artista qualcosa cerca e qualcosa trova. Impossibile vedere la traccia del suo cammino, perché il segno, nel suo debordamento, non si dà a vedere e il cammino artistico procede ora sul bordo, ora sul muro del suono, verso la gloria. L’itinerario di Stefano Fanara dà un apporto essenziale al secondo rinascimento, rinascimento senza cui non ci sarebbe neppure il primo, così come non c’è la tradizione senza l’invenzione.
LA CREAZIONE DEL SEGNO, LA TRACCIA, IL SEGNO, LA CIFRA.
- Critico: SERGIO DALLA VAL
- Anno: 1999
- Tecnica mista su tela di yuta/tela/carta
Le cose si dicono e non possono non dirsi, senza la facoltà del soggetto. Nelle opere di Stefano Fanara, la traccia dell’interdizione linguistica è l’essenziale del disegno, da cui procede il segno nella sua tripartizione: nome, significante , Altro. Senza più il problema del rapporto tra significato e espressione, tra contenuto e forma, importano delle cose nell’opera il loro funzionamento e debordamento, i loro effetti impensabili, imprevedibili, indescrivibili.
Olio, acrilico, polvere di bronzo ramato e dorato si dispongono sulle tele di Fanara come strumenti di una melodia pulsionale, ora percorrendo il filo del sogno, ora svolgendo la corda della dimenticanza.
Ecco una rivoluzione senza progresso, né cambiamento: il segno non si carica di ricordi o di significati, ma nell’intersezione tra il simbolo come incodificabile e la lettera come indicibile, giunge alla cifra, si volge alla qualità, alla perennità.
“LA CREAZIONE” DI ROBERTO ZAMBELLI – PERUGIA 1998
- Critico: ROBERTO ZAMBELLI
- Anno: 1998
- Tecnica mista su tela di yuta/tela/carta
“Un giorno verrà la luce!, Fanara è un uomo e sta cercando la sua gestualità, i suoi colori e i simboli vogliono parlare un’altra lingua, senza confini e dialetti. Abbattere l’incomunicabilità per raggiungere una nuova dimensione senza tralasciare un profondo senso ludico della vita. L’opera astratta, a volte dolorosa, a volte trascendente, a volte giocosa e scherzosa così l’uso originale dei colori e l’utilizzo della materia.
Ma non chiediamo alla mente di capire tutto in fondo è solo un complesso circuito elettrico. Se ci riusciamo lasciamoci al cuore; in quelle tracce realizzate da Fanara troveremo brandelli che ci appartengono. Un giorno sarà luce.